Forse non è vero (e me lo auguro caldamente), ma ho l’impressione che solo quelli di una determinata generazione ricordano questo giorno di 70 anni fa. Nella prima mattinata di un’afosa domenica, non solo metaforica, il Gran Consiglio del fascismo, un organismo creato alcuni anni prima, votava un ordine del giorno contrario alla politica del Duce. Era, in parole povere, l’invito a Mussolini a mettersi da parte, incapace di portare avanti una guerra, alla quale il paese si era mostrato subito impreparato. Il voto era utilizzato dal re Vittorio Emanuele III, il quale, dopo averlo ricevuto nel pomeriggio, lo faceva arrestare e condurlo al sicuro.
Cadeva con questo atto il fascismo e cadevano anche quei gerarchi che avevano voluto salvare il regime dal tracollo, prendendone il posto, ma senza riuscirvi perché il monarca ritenne giusto liquidarli tutti. Ed ognuno di essi, a parte alcuni, cercò di mettersi al sicuro, trasferendosi all’estero o trovando rifugio in qualche ambasciata amica.
La notizia, esplosa nel paese come un fulmine a ciel sereno, fu accolta con manifestazioni di gioia e cortei spontanei che plaudivano all’avvenimento e con canti e parole inneggianti alla pace e alla fine del conflitto.
Non fu così perché, dopo 45 giorni, l’Italia firmava un armistizio ma rimaneva divisa in due settori: il Regno del Sud nelle regioni liberate dagli Anglo-americani e la Repubblica di Salò, con a capo Mussolini, nelle regioni centro-settentrionali del paese, occupate dall’esercito tedesco,
Ne scriveremo una prossima volta.
Un papà tra passato e presente