He o she? Meglio Ze. Così non offendiamo i transgender

Ultima modifica 14 Ottobre 2019

Lui o lei? No meglio… usare un termine ‘diverso’.

Dobbiamo riconoscere che, a volte, si prova un certo imbarazzo a rivolgerci ad una persona con un pronome maschile ( o femminile) quando si sa che la stessa è gay o lesbica.

Almeno a me è capitato più volte di rimpiangere che nella mia lingua non fosse previsto il genere neutro, come avveniva nel latino, eppure noi abbiamo parole che possono essere riferite a qualsiasi persona.

Mi hanno fatto sorridere con ironia le pretese della Presidente della Camera, la quale, ritenendo ovviamente che il termine presidente potesse essere riferito solo ad un uomo, ha preteso di essere chiamata presidenta, così come, se ci si riferisce a donne, dovremmo usare i termini avvocata, dottora, ecc… ignorando, forse, che anche nomi o aggettivi terminanti con la a possono essere riferiti a uomini.
Dovremmo chiamare giornalisto un uomo che fa quella professione? Mah…

ze_she

Mi ha riempito invece di tristezza la pretesa in altro paese, confermata da una legge, di abolire i termini di mamma e papà sostituendoli con genitore 1 e genitore 2, mi sono chiesta chi avrà l’onore di essere chiamato genitore 1? L’uomo o la donna?

Perché, fino a prova contraria o finché la scienza non scopra un rimedio, ancora oggi nel 2000, per nascere un bimbo (a) ha bisogno di uno spermatozoo (uomo) e di un ovulo (donna) e chi nasce ‘diverso’, cioè si sente ‘diverso’, per quante operazioni si sottoponga, per quanti tentativi faccia, non è in grado di procreare se non nel genere apparente in cui è nato (a).

Scusate queste parentesi, e i virgolettati, ma, purtroppo, non ho altro modo per non offendere nessuno (a).

Quanto mi manca il genere neutro… a quante complicazioni ci avrebbe sottratto!

Ecco alla prestigiosissima università di Oxford, che sembra sarà seguita a ruota da quella di Cambridge, hanno fatto una pensata geniale: hanno inventato un nuovo pronome ze con il quale ci si dovrebbe rivolgere a chi è trans (testuale), ritenendo, credo giustamente, di non poterli indicare col termine it, usato per le cose.

Prendono atto che esiste un terzo genere, accumunando in esso tutte quelle persone che si riconoscono nella comunità Lgbt, e non si sentono di essere appellate ne con he, ne con she.

Questo, però, è possibile se si parla o si tratta di persone conosciute per il loro orientamento sessuale, altrimenti come ci si dovrebbe comportare?

Si dovrebbe portare un segno, un simbolo di riconoscimento o si dovrebbe possedere una palla di vetro per capire l’orientamento sessuale della persona?

E questo per non temere di offenderla?
Per essere politicamente corretti?

Non sarebbe più semplice eliminare le differenze trovando un pronome che racchiuda e si rivolga a tutti i generi?

Un pronome che non offenda nessuno?

Che poi le parole terminino con la a o con la o, o con altre vocale, dovrebbe essere indifferente a meno che non si giunga al paradosso di legare, sempre di più le vocali al sesso.

Ma oggi stiamo diventando più pignoli, non più sensibili.
Siamo più insicuri, più insofferenti, ma anche più sciocchi e più pretestuosi, ci perdiamo in quisquilie, pretendiamo il rispetto della privacy e contestualmente la sbandieriamo e ci offendiamo, o crediamo di offendere se gli interlocutori o gli altri in genere non rispettano le nostre o altrui credenze o le tendenze sessuali che non abbiamo scritte in fronte, non portiamo simboli o tatuaggi identificativi, ci perdiamo in sottigliezze e non distruggiamo i problemi alla radice.

Siamo tutte persone.

Bianchi, neri o diversamente colorati, cristiani, musulmani, buddisti o appartenenti alle tante religioni grandi o piccole sparse nel mondo, siamo tutte persone e tutte meritiamo rispetto, se ce lo meritiamo, e dobbiamo ottenerlo così, semplicemente perché tutti (e) siamo persone.

® Riproduzione riservata

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