1° Maggio: mito e realtà

Fino a qualche decennio addietro, durante il corteo per il Primo maggio, i manifestanti che sfilavano lungo le strade delle grandi e piccole città, erano l’ immagine personificata del Quarto Stato, il noto dipinto di Giovanni Pellizza da Volpedo, raffigurante  l’umanità del lavoro subordinato.

La dimensione caratterizzante della celebrazione, iniziata ufficialmente il 1 maggio 1890 e poi ribadita negli anni successivi (in Italia durante il fascismo fu soppressa e spostata al 21 aprile, giorno del cosiddetto Natale di Roma), era costituita dalla sua internazionalità e dalla solidarietà fra tutti i lavoratori.

La proposta da parte delle organizzazioni operaie, europee ed americane, di promuovere nel maggio 1886 uno sciopero generale per chiedere le otto ore lavorative, travalicò il proposito stesso  della dimostrazione, caricandosi di un tale significato che nel 1899 indusse il congresso dell’Internazionale socialista a proclamare il 1 maggio come Labor Day.  Da un giorno di festa e di lotta, sottratto “al tempo del padrone”, e senza che ci fosse stata alcuna azione rivoluzionaria, diventava il simbolo della fine del vecchio mondo e l’ inizio di una nuova  strutturazione della società.

Anche oggi è una giornata di riposo, ma è anche un tripudio di festa perché unisce musica, spettacolo e contrattazione salariale. Accanto ai lavoratori c’è una massa imponente di giovani, che, da tutta Italia, si reca a Roma per assistere in Piazza San Giovanni al grande concerto musicale, programmato dalle Confederazioni.

I tempi sono cambiati. Il mondo va avanti. Gli organismi sindacali non hanno più la funzione che avevano prima. Le classi lavoratrici, le cosiddette tute blu,  hanno perso il fascino delle stagioni “eroiche”, quando esercitavano un’ enorme influenza nella politica e nello Stato. Non esiste più la contrapposizione  tra le classi sociali oppure lo è in misura minore. Sono venute meno le ideologie.

Tutto questo è vero, ma la rievocazione deve continuare comunque. E lo deve non perché c’è prossima all’ orizzonte la rivendicazione delle otto ore, ma  per il fatto che lo reclama la modernità, ce lo impone la stessa globalizzazione dell’ economia con tutti gli effetti, positivi e negativi, del fenomeno, che, per tutti, può apparire nuovo, ma poi in definitiva così nuovo non lo è se si considera, per esempio, che i primi processi di internazionalizzazione del commercio hanno assunto una notevole ampiezza già agli inizi del Novecento, bloccati in seguito a causa delle conseguenze della Rivoluzione russa del 1917 e della crisi economica del 1929.

Noi tutti (ai lavoratori dipendenti, uomini e donne, accosto anche i pensionati), abbiamo ancora bisogno del Primo maggio. Oltre ad essere una memoria storica, oltre a rappresentare un’eredità di un grande patrimonio di valori comuni, oltre ad essere l’ affermazione della nostra individualità,  esso rappresenta una storia di libertà, di democrazia e di progresso sociale, di “profonda aspirazione ad un mondo senza conflitti”.

In assenza del Primo maggio, viceversa, potrebbe esserci il rischio di essere accantonati, annullati o tutt’al più – come sottolinea qualcuno- in nome del progresso trasformati “in consumatori dei centri commerciali, in merce anonima, in moderni schiavi del dio mercato”.

A me questa ultima idea non piace per niente e credo che anche a voi la prospettiva  susciti  apprensione.

Un papà: tra passato e presente

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