Genitorialità: la mia lunghissima strada in salita

Ultima modifica 3 Novembre 2020

Mi risulta difficile parlarne.
È come rivivere ogni volta lo stesso dramma, perché per me di dramma si tratta.
Ho sempre riso su tutto, ho così ironizzato su me stessa da diventare una burla ambulante ma quando i miei bambini sono andati via non ho trovato nulla da riderci, anzi mi sono incattivita, la mia anima si è assottigliata e di me è rimasta solo la mia ombra, la mia allegria era un ricordo artefatto.

La mia prima gravidanza mi ha riempito di felicità, ero rimasta incinta quando io e mio marito l’avevamo progettato.

L’ho scoperto durante il periodo natalizio e andavo in giro saltellando.
La prima macchia di sangue sugli slip mi ha atterrita.
Tutta la felicità nel vedere e udire il battito del suo cuoricino si è ridotta a un vuoto sordo in petto quando un’emorragia me l’ha portato via, trascinandosi dietro quello che di buono, bello e magico avevo sempre pensato del Natale.
Tutti, amici e parenti, continuavano a dirmi che io e mio marito eravamo giovani, che sono cose che succedono e che presto avrei dimenticato lo scricciolo di vita che mi aveva scaldato il ventre.

La seconda volta ho pensato seriamente di esserci riuscita.

Mio marito mi toccava il pancino cresciuto e raccontava alla nostra piccola storie inventate da lui. Avevamo scelto la stanzetta, persino i compari di battesimo, nulla presagiva che il diventare genitori per noi due sarebbe stato un cammino tortuoso e in salita.
È accaduto durante la visita della sedicesima settimana di gestazione.
Ormai ero fuori pericolo.
Niente perdite di sangue, la bambina cresceva bene … almeno così era stato fino all’ultimo controllo. Non dimenticherò mai il capo reclinato sul petto e le braccia cadute lungo il corpo della mia piccola amata.
Come la sua immagine è apparsa sullo schermo l’ho capito subito.
Non si muoveva, non nuotava, era lì in un cantuccio del mio utero come se qualcuno ce l’avesse adagiata per tenerla al sicuro.

Glielo avevo detto a mia madre, quella mattina che sentivo che qualcosa non andava, lo avevo intuito, avevo sentito d’uno tratto un vuoto in me che aveva creato una voragine, il gelo. Mia madre mi disse che ero paranoica ma il mio istinto aveva previsto cosa avrei subito da lì a poco.

Non sto qui a raccontarvi le lacrime, non ho smesso un attimo.

Dallo studio fino a casa, infilata a letto, consapevole che il giorno dopo sarei dovuta andare in ospedale e avrebbero dovuto strapparmi via la mia piccola, ho pregato tutta la notte, ho chiesto a Dio di fare un miracolo. Dov’era finito il mio amore e quello di mio marito?
Le fiabe raccontate? Le canzoni sussurrate di notte? Le carezze sul ventre?
Allora l’amore, mi dicevo, non aveva il potere di cui tutti parlavano … era solo un illusione. Non vi sto a raccontare il mio desiderio di ammazzare mia suocera con l’asta della flebo quando appena sveglia dall’anestesia continuava a sussurrami “Devi trovare una soluzione perché mio figlio deve diventare padre!”.

In tutto questo ambaradan non ho trovato solidarietà e comprensione da parte altrui, ma solo cattiveria.

Se non avessi avuto il sostegno di mia madre, delle mie sorelle e di mio marito non credo proprio che avrei avuto la forza di uscirne con la psiche ancora integra.
I ginecologi interpellati erano tutti degli incompetenti, poco professionali che continuavano a ribadirmi che io e mio marito eravamo sani che gli aborti avrebbero potuto raggiungere numeri notevoli ( dai dodici ai venti) ma alla fine sarei riuscita a portarne uno alla luce.
Io non ero disposta perché ogni mio figlio, che fossi al secondo, al terzo o al quarto mese di gestazione per me aveva già un nome, un volto e con ognuno di loro ho vissuto tutta la vita.

Al terzo aborto ho detto basta.

Ho detto a mio marito che non avrei retto al quarto, non ero disposta a perdere me stessa, la mia allegria, la mia ironia, la mia forza.
Dovevo trovare una soluzione.

Sono stati cinque anni di calvario.
Cinque anni di viaggi della speranza. Ho girato l’Italia in lungo e in largo e tutti mi dicevano la stessa cosa: “Siete sani!!!” e io ribadivo: “ Non si può dire a un malato di cancro che è sano! Se abortisco ci sarà un motivo!”. “Magari” dicevano in coro “ non siamo ancora in grado di diagnosticare la sua patologia!
Non esistono i metodi, i macchinari!Forse tra un anno o un secolo!”.

Non mi soddisfaceva una risposta del genere, non sono fatalista, non potevo lasciare la mia vita e quella dei miei figli in mano al caso … forse, sé …

È capitato così per caso.

Ho scoperto l’esistenza di un centro al Nord d’Italia e ho deciso di provare. Una risposta immediata, secca. “Carenza del corpo luteo”. Non potevo crederci … che banalità …un viaggio così lungo, quanti soldi spesi. Mi hanno rivoltata come un calzino.
Mi sono sentita un pezzo di carne da macello.
Io e mio marito sballottati dal vento come foglie secche, come oggetti inutilizzati.

Siamo tornati a casa con un’impegnativa di ovuli e tanta speranza nel cuore.

Dieci mesi dopo quel viaggio io e mio marito siamo diventati genitori di una splendida bambina. Una bambina che mi ritrovo a guardare e a chiedermi “Ma è reale o frutto della mia mente?”.

Cinque anni di calvario, di analisi, viaggi, lacrime e disperazione.
Cinque anni in cui mi sono sentita dire “Tu figli niente? Quando ti decidi?”. Cinque anni in cui le mamme che ho incontrato sul mio cammino mi hanno detto che vivere senza figli è una vita inutile. Quanta cattiveria gratuita abbiamo ricevuto io e mio marito, cattiveria che non abbiamo dimenticato nonostante la nostra piccola abbia azzerato il resto.
Non ho dimenticato i miei tre figli perduti, li penso sempre, ricordo la data della loro presunta nascita e nelle notti di tempesta mi sveglio convinta di doverli difendere da tuoni e fulmini ma la loro stanzetta è vuota … mi confortano un poco le parole di un sacerdote del mio paese che mi ha detto, in un mio momento di profondo dolore: “Quando varcherai il Regno dei cieli li troverai lì, ad aspettarti e li riconoscerai al primo sguardo, perché sei e sarai sempre madre di quei bimbi”.

Mammapersempre

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