Il tirocinio di Alice

Ultima modifica 20 Giugno 2019

 

Come il Davide di qualche tempo fa, anche l’Alice di quest’articolo non esiste, anzi, esiste, ma è stata stravolta, cambiata, inventata o, forse, no.

Una mattina di qualche settimana fa il Preside mi annuncia che presto verrà nella mia classe una ragazza, che dovrà fare tirocinio ed io, squillino le trombe e rullino i tamburi, avrò l’onore di essere la sua tutor.tirocinio

Dal 2010 il tirocinio è necessario per diventare insegnante di scuola primaria, in quanto insegnare non può essere solo teoria ma anche, e soprattutto, pratica. Le aspiranti insegnanti devono fare, all’interno del percorso di studi di Scienze della Formazione,un periodo di pratica all’interno delle scuole (in genere, una cinquantina di ore), dove osservano le dinamiche della classe e si mettono alla prova in alcune attività pratiche didattiche.

Alice si è presentata dopo qualche giorno. Capelli lunghi e ricci, occhi timidi dietro ad un paio di occhiali dalla montatura ampia, di quelle che vanno di moda ora. Corpicino adolescenziale, modellato da una grande passione per la danza, di cui mi dirà poi.

«Sono la ragazza che deve fare il tirocinio per l’Università, il Preside mi ha detto che lei sarà la mia tutor».

«Ti prego, non darmi del lei, mi fai sentire vecchia… quanti anni hai?»

«Ventitré».

Gulp. Mi sembra giovane, molto giovane ma, in fondo, è l’età in cui si fa l’Università.

«In primo luogo, devo osservare e poi, eventualmente, provare a fare qualche piccola attività didattica, magari a fine tirocinio».

Il Preside mi aveva parlato di lei, ma non era quella l’idea di tirocinio che avevo pensato per lei.

Osservare? Cara Alice, non è così che si diventa maestra. L’Università sbaglia a farti vedere un’immagine di insegnante psicologa che riesca a sapere fare bene il suo mestiere, osservando le dinamiche di una classe, categorizzando i caratteri degli alunni e cercando di prevedere le reazioni e i risultati.

La maestra (sì, maestra e non insegnante di scuola primaria) è un soldato in prima linea, si “sporca le mani”, si costruisce e ricostruisce ogni giorno – e non impara dai libri di scuola – il proprio mestiere, ma se lo costruisce sulla propria pelle, con gli anni e insieme agli alunni.

«Alice, – le dico con fare materno (passatemi il termine, anche se abbiamo poco più di dieci anni di differenza) – non è così che imparerai a fare la 76610[1]maestra, se è il mestiere che vuoi fare davvero. Quando ero io a dover fare supplenze. venivo sballottata da una scuola all’altra, da una chiamata all’altra e partivo con la mia Panda bianca, dal cambio durissimo, su e giù per strade di montagna, che solo a pensarci adesso mi vengono i brividi. Nessuno mi diceva cosa dovevo fare, mi chiudevano in una classe da sola ed ero io, lì con i miei alunni, a inventarmi il lavoro, a reinventare me stessa e trovare la strategia giusta per comunicare a ogni bambino, anche se sarebbe stato mio alunno solo per due giorni. Quella che ero all’epoca, non sono ora e ciò che sono ora di certo non lo sarò fra qualche anno, perciò mettiamoci subito a lavorare».

Alice mi guarda con fare sospetto, non è certo quello che l’Università le richiede, ma accetta di buon grado la mia “sfida”. È vero che il nostro mestiere non può essere appreso solo dai libri e non si può fare la maestra per “teoria”, ma è pur vero che il tirocinio deve essere non solo osservativo, ma anche e, soprattutto, pratico. La maestra elementare (diversissima dall’insegnante di scuola primaria) impara, buttandosi a capofitto in una classe e trovando un’altra sé stessa, che è impossibile recuperare dai libri.

Arianna Simonetti

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