Penso Parlo Posto. La comunicazione non ostile di Cubeddu e Taddia

Ultima modifica 3 Giugno 2019

Penso Parlo Posto. Breve guida alla comunicazione non ostile, di Carlotta Cubeddu e Federico Taddia. 

Penso Parlo Posto

Penso Parlo Posto è un libro preziosissimo. Carlotta Cubeddu e Federico Taddia lo hanno pensato come un manuale di condotta, una specie di galateo per il mondo dei social, ma senza antipatiche norme prescrittive. Quindi già vi dovrebbero stare simpatici.

Metto le mani avanti e vi dico che spero che questa recensione non appaia come un tentativo un po’ nostalgico di ricordare i bei tempi che furono. A dirla tutta a me i bei tempi che furono non mancano affatto: eravamo tutti più repressi, meno liberi e avevamo molte meno informazioni a nostra disposizione, mancanza a cui Internet ha posto rimedio regalandoci una visione più ampia del mondo e consentendoci di avere accesso ad una moltitudine di notizie nel tempo di un clic.

Dalla fine degli anni ‘90 (io avevo vent’anni), l’ingresso dei social network nella nostra quotidianità ha segnato una rivoluzione importante,

modificando in maniera definitiva le relazioni che intratteniamo con le altre persone. Perché questo post potrebbe sembrare nostalgico? Cosa mi manca dei bei tempi che furono? Ecco, la risposta è semplice: a me mancano l’educazione e il tatto nei rapporti interpersonali. 

Penso Parlo Posto

Quando eravate ragazzini, pensateci, se foste stati invitati a casa della signora di sotto, vi sarebbe mai venuto in mente di appoggiare i piedi sul tavolo, vi sarebbe mai venuto in mente di ruttare nel bel mezzo della conversazione o di insultare il cibo gentilmente offertovi dalla padrona di casa? No. Perché? Perché altrimenti i vostri genitori, da cui avevate imparato le regole del vivere civile,  si sarebbero arrabbiati. La signora di sotto poi lo avrebbe raccontato a tutto il condominio e voi vi sareste vergognati a morte nell’incontrare lei o chiunque altro per le scale.

I social oggi sono casa della signora di sotto e tutto il condominio, ovvero un nuovo luogo di incontro, seppure virtuale. Si tratta di un posto molto chiassoso e un po’ anarchico, in cui praticamente non ci sono i nostri genitori che ci insegnano a non mettere i piedi sul tavolo in casa di altri.

Questo perché le generazioni che avrebbero dovuto essere di riferimento non sono state in grado di accompagnare i più giovani in questa transizione epocale dalle relazioni faccia a faccia alle relazioni virtuali. Semplicemente non avevano i mezzi, gli strumenti, la comprensione della portata del fenomeno. Anzi, a dirla tutta, sono state coinvolte nella frenesia della rete tanto quanto i giovani, sprovviste anche esse di galateo cibernetico.

Penso parlo posto. Breve guida alla comunicazione non ostile corre ai ripari e riempie quindi quel vuoto educativo

che per diversi motivi le generazioni più sagge non sono riuscite a ricoprire. 

Il manualetto, accompagnato da graziose illustrazioni e fumetti, si sviluppa sulla base di un decalogo prezioso che funge da vademecum per il viaggio nelle comunità virtuali.

Penso Parlo Posto

Da tatuarselo sul braccio.

Qual è il fine ultimo di questo libro?

Penso Parlo Posto “vuole cambiare il mondo una parola alla volta”, ha l’obiettivo di far riflettere il lettore (e quindi l’utente), sull’efficacia e l’opportunità (nessuna!) dell’uso di un linguaggio violento, del cosiddetto hate speech. E questo NON per cercare di creare una realtà virtuale e utopica in cui tutti per forza si amano e si rispettano (tipo il mio gruppo di Yoga – quasi mille utenti e non ci esce mai una parola storta!) ma per elicitare, per stimolare la consapevolezza che tutti noi lasciamo un’impronta nella rete e che questa impronta definisce le persone che siamo.

Ogni capitolo di Penso Parlo Posto è accompagnato da un esempio pratico di vita virtuale, dalla creazione di false identità al tag inopportuno, dal ban da un gruppo al plagio di materiale online o alla condivisione di notizie false.

federico taddia

Ma, come dicevo, questo libro ha l’enorme merito di fornire un’occasione per ripensare a noi stessi all’interno della comunità e per cercare di comprendere fino a che punto, per noi, il virtuale è diventato reale e il reale virtuale.

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