Una donna, il lavoro in proprio e la pma

Ultima modifica 21 Maggio 2018

Mi chiamo Sara, ho 32 anni, un marito, una figlia, un’azienda e sono sempre sull’orlo di una crisi di nervi.
Quando decisi di diventare mamma ero sposata da un anno, avevo già fatto tutti i conti del caso, pianificato la mia vita nei minimi dettagli e sì, mi sentivo pronta.

La vita però aveva progetti diversi per me.

I mesi passavano e di quel bambino tanto desiderato nemmeno l’ombra.
Dopo tutta una serie di visite ed esami, la diagnosi di infertilità, che inchiodò me e mio marito spalle al muro.
Nel frattempo il lavoro si stava evolvendo, le mie mansioni in azienda aumentavano e quella gravidanza che tardava ad arrivare mi rendeva particolarmente nervosa.

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Più di una volta in quel periodo ho messo in discussione tutto, il mio matrimonio, il mio lavoro.
Non facevo che pensare a quello che non potevo avere: un figlio.

E, mentre io ero alle prese con quella gravidanza negata, non facevo che vedere donne incinte, assistevo ad annunci di cicogne in arrivo da parte di amiche e conoscenti.
Sorridevo ma, ogni pancia o carrozzina che vedevo, una parte del mio cuore andava in pezzi.

Ad un certo punto decisi di prendere la situazione in mano.  Avrei avuto un bambino, non mi importava quanto sarebbe stato difficile o doloroso.
E fu così che approdammo alla PMA.
Un percorso difficile, non per tutti, ma che pareva essere una delle poche strade che avevamo a disposizione per coronare il nostro sogno di essere una famiglia.

Furono mesi pieni di ansia e aspettativa ma, quando ci comunicarono la data del primo tentativo, marzo 2014, le nuvole sembrarono sparire. Avevamo un obbiettivo da perseguire.

Nel frattempo in azienda c’era stato un grosso cambiamento, il sogno lavorativo mio e di mio padre si era avverato: eravamo diventati soci, tutto era in famiglia. Questo significava più responsabilità per me, ma non mi spaventava. Era quello che volevo.

Il percorso di PMA fu qualcosa di emotivamente forte. Fisicamente ero provata dalla stimolazione ormonale ma mentalmente stavo bene, mi sentivo agguerrita, puntavo dritta all’obbiettivo. Tre giorni dopo il transfer di 2 embrioni venni ricoverata in ospedale per iperstimolazione. Non ho mai provato un dolore del genere. Trascorsi i giorni successivi nello sconforto, pensai alle mie due stelline e al fatto che non ero stata in grado di prendermi cura di loro.

Non lo ero ancora, eppure già mi sentivo una pessima madre.
Decisi che non avrei fatto il dosaggio delle beta hcg, dopotutto a cosa serviva? Avevo rovinato tutto.
Invece poi quel prelievo lo feci. 215!!!!!!!!!!!!! Quando lessi il valore delle beta non dissi niente. Non sapevo cosa dire. Pazzesco. Un miracolo. Rifeci le beta altre 4 volte prima di sentirmi dire dal centro di PMA “Sì, sembra proprio incinta signora, le fissiamo la prima ecografia”.

Ero in Paradiso. Quanti? fu la prima domanda che feci quando la sonda entrò in contatto col mio utero. E poi lo vidi. Uno. Un fagiolino. Non due. La prima sensazione è stata di sollievo, non so se sarei stata in grado di gestire due bambini e un lavoro impegnativo come il mio. Durante la gravidanza affrontai un distacco amniocoriale che mi imponeva il riposo assoluto.

Il letto, quando hai un’azienda, non è una possibilità.
Infatti restai al mio posto, sul ponte di comando. La gravidanza procedette, ovuli di progesterone fino al sesto mese, aumentai 17 kg. ma non mi ero mai vista più bella in vita mia. Io e mio marito portiamo avanti la nostra decisione di non voler conoscere il sesso, perciò chiamavamo il nostro fagiolino Sofiego, un mix tra Sofia e Diego, le nostre scelte, e così lo chiamammo fino alla fine.

Lavorai fino alla sera del 15 dicembre, poche ore dopo avevo il controllo in ospedale, ero a 39+3 eppure l’idea che fosse giunto il momento non mi sfiorava nemmeno. “Facciamo in fretta che c’è Grey’s Anatomy” mi dico mentre attendo paziente che la mia ginecologa mi riceva. Lei però ha un’idea diversa dalla mia di come trascorrere quel lunedì sera. Liquido amniotico in riduzione. “La teniamo qui e domani la facciamo partorire”. Non ho nemmeno la valigia, scendendo dal lettino le dico che vado a casa a prendere il borsone e torno “Giuro che torno”.
In risposta mi mettono al polso un braccialetto. Game Over.

Non sono pronta mi dissi mentre continuavo a rigirarmi in quel letto che non era il mio, lontana da mio marito, sola con il mio pancione che da mesi mi riempiva l’esistenza. Sapevo di aver lasciato tutto apposto in ufficio.

Quel giorno, forse per un sesto senso, avevo chiuso tutte le cose che avevo in sospeso. Dopo più di 2 anni era arrivato il momento di stringere tra le braccia il mio bambino. Non avevo paura, non mi spaventava il dolore, quello vero l’avevo già provato, negli ultimi anni, nel corso della mia vita.
All’ 1.28 del 17 dicembre 2014 dopo un parto indotto e 7 ore di travaglio, contro tutti i pronostici delle ostetriche che scommettevano su un maschio, nacque Sofia. E la mia vita cambia per sempre.

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Ci guardammo negli occhi la prima volta e la riconobbi. La mia guerriera.
Non poteva che essere una femmina, per il modo in cui era rimasta attaccata alla vita.

E anche nei giorni successivi, quando per l’ittero ci costringono in ospedale e la mettono sotto la lampada della fototerapia, mi accorgo di quanto sia forte.

Ci dimisero dopo 4 giorni, era una domenica. Il lunedì mattina ero in ufficio, con i punti, le emorroidi e Sofia nell’ovetto. Eccola la mia maternità. 4 giorni.

Col senno di poi mi rendo conto che la maternità obbligatoria ha un senso, perché permette alla donna di riprendersi dal parto e dai primi, caotici, tempi insieme al bambino.

Sara Villa

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