Quando ai banchi di scuola siedono i genitori

Ultima modifica 2 Ottobre 2018

Ecco l’idea tutta inglese di un corso di genitorialità.

Alzi la mano chi pensa di meritare dieci in genitorialità. Nove? Otto? Va bene, dai, io un sette per l’impegno credo di meritarlo, però, se anche in Italia, come sta succedendo in Inghilterra, si pensasse ad un percorso in cui perfezionarsi come genitore, io sarei la prima iscritta.

L’idea di sostenere i genitori, nel loro difficile compito, è venuta ad un certo John Ashton, presidente della Faculty of Public Health, a fronte dei dati preoccupanti relativi alle condizioni di salute psicologica degli alunni delle scuole inglesi. Pare, infatti, che un bambino su dieci soffra di problemi psicologici rientranti nello spettro dei disturbi d’ansia e depressivi.

abbraccio-mammaiglia

Ai tempi della mia infanzia, i genitori si sentivano degli Dei.
Loro non sbagliavano mai, loro non si mettevano mai in discussione, loro non chiedevano mai scusa, almeno non i miei. Alla fine lo capivi che ti amavano ma era un messaggio subliminale così discreto che facevi fatica a credere di averlo visto. Come quando, durante un film degli anni Ottanta, ti chiedevi se davvero il passante sullo sfondo avesse un pacchetto di Marlboro in mano. Sì ce l’aveva ma non poteva mica sventolartelo in faccia e, così, solo riavvolgendo il VHS, si vedeva, chiaramente, che quel tizio losco aveva il pacchetto di sigarette di quella marca e che se ne stava anche fumando una. Allo stesso modo, io, solo riavvolgendo e riguardando il nastro della mia infanzia, capisco che anche mio padre, in qualche modo, in qualche lingua ancora non decodificata, mi mostrava il suo amore.

Ecco, allora, che comprendo il motivo delle mie tante paure di bambina, della mia affannosa ricerca di conferme, di messaggi, di un’approvazione.

Capisco l’ansia da prestazione che mi ha precluso molti piaceri e successi e la voglia di andare un po’ contro corrente che ha fatto capolino durante l’adolescenza. Forse, a mio padre non sarebbe servito un corso di genitorialità ma un’unica lezione intensiva intitolata: “La sigaretta uccide, l’amore nutre. La prima va spenta, il secondo acceso.” Perché io sono sicura che lui, in tasca, oltre ai due pacchetti di sigarette senza filtro che gli duravano non più di una giornata, aveva, ed ha ancora, tanto amore ma io non riuscivo a trovarlo perchè le sue tasche erano cucite e nessuno gli ha mai insegnato come aprirle.

Per tanti anni ho temuto quell’uomo così indecifrabile, tanto che, quando ero ragazzina, se dovevo chiamare a casa per chiedere il permesso di cenare da un’amica, ad esempio, speravo sempre non rispondesse lui. Se succedeva, io attaccavo. Arrivati ad un certo punto, mio padre cominciò a pensare che la nostra famiglia fosse nel mirino di un maniaco o che mia mamma avesse un amante, tante erano le telefonate anonime che riceveva! Invece dall’altra parte della cornetta, c’era solo la sua bambina che non sapeva come parlare con lui.

Spesso i genitori lamentano un’incomunicabilità coi propri figli adolescenti, la stessa che c’era tra me e mio padre.

Un’incomunicabilità che si crea quando non si scuciono quellle tasche, quando, non riuscendo a dire e a dimostrare il proprio amore ai figli, questi, fin da piccoli, si convincono di non essere amati. Credo che questo succeda in molte famiglie perché il non saper esprimere i propri sentimenti è qualcosa che si tramanda di padre in figlio, come una malattia genetica, e non è colpa di nessuno. Allora ben venga una scuola per i genitori in cui si insegni loro, non tanto a distinguere la tachipirina dal lassativo, quanto ad esprimere e trasmettere l’amore che nutrono per i loro figli, mettendolo in evidenza nei gesti che fanno verso di loro, anche in quelli sbagliati. Sì, perché i genitori sbagliano ma devono saper chiedere scusa; i genitori esigono ma devono saper dire comunque “Bravo”, i genitori hanno dei sogni per i figli ma devono sapervi rinunciare, i genitori si arrabbiano ma deve essere una rabbia dolce, come un chupito di rum smorzato da un sorso di pera.

Forse, a ben guardare, un corso non sarebbe poi così necessario se solo tutte le mamme e tutti i papà avessero voglia, ogni tanto, di riavvolgere il film della propria infanzia soffermandosi su quelli che erano i loro bisogni di bambini.

Ecco perché ogni volta che guardo i miei gioielli e sento di essere fortunata ad averli, io lo dico, quando li trovo belli, io lo faccio loro presente e quando sono orgogliosa di loro io lo urlo. Se la locuzione “Ti amo” saturasse l’aria di anidride carbonica, il rilevatore di fumo, in casa mia, scatterebbe già alle nove del mattino! Perché sono convinta che le parole dolci dette ai nostri bimbi servano a nutrire loro d’amore e, in fondo, anche un po’ a sfamare quel bimbo in credito di affetto che è rimasto dentro di noi.

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