Condannato per omofobia

Ultima modifica 6 Novembre 2015

La notizia è stata rilanciata più o meno in questi termini da quasi tutte le testate italiane: Nelson Zavala, candidato Presidente in Ecuador, condannato per omofobia e privato dei diritti politici per un anno. Precisiamo che la condanna è intervenuta a elezioni concluse, con la vittoria dell’ex Presidente Rafael Correa, quindi non ha influito sul risultato elettorale (pessimo) ottenuto dal candidato (che ha ottenuto l’ 1,23% dei voti di preferenza)

Questo il fatto: la campagna elettorale del candidato, pastore evangelico, era già stata oggetto di condanna da parte del Consiglio Nazionale Elettorale, “per le sue ricorrenti opinioni che inducono all’intolleranza in base all’orientamento sessuale”, il politico aveva deciso di non ottemperare all’ordine di evitare il ripetersi di tali violazioni, contrattaccando il Consiglio con l’adombrare che alcuni suoi componenti fossero omosessuali.

Di qui la sanzione, per aver violato la disposizione che vietava ai candidati di pronunciare qualunque commento lesivo della dignità delle persone.

In altre parole, le frasi omofobe non sono state condannate in sé, come hanno commentato alcune autorevoli voci, ma in quanto lesive, per il loro contenuto oltre che per la forma, del diritto fondamentale della persona – di qualsiasi persona, senza distinzione di razza, sesso, religione, opinioni politiche e orientamenti sessuali – ad essere rispettata in quanto tale, in quanto individuo i cui interessi fondamentali sono perno degli ordinamenti moderni, come consacrato dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino, ma già prima dalle carte dei diritti delle rivoluzioni settecentesche francese e inglese e dai filosofi dell’Illuminismo. Diritti che, anzi, preesistono agli Stati e per questo non sono neppure suscettibili di limitazione per legge, in quanto innati nell’Uomo, che gli Stati si limitano a riconoscere, e non oggetto di “graziosa concessione” del Sovrano.

Una democrazia latino americana spesso oggetto di critiche, in alcuni casi fondate, questa volta si presenta al mondo come esempio di garanzia del diritto fondamentale alla dignità, rispetto ai proclami elettorali, la cui fisiologica animosità non può spingersi oltre il limite del rispetto delle persone. Proporrei, anzi, questo esempio a non pochi nostri politici e politicanti.

Tornando all’argomento specifico, ho appreso questa notizia indirettamente, attraverso il commento di un giurista che l’additava come grave attentato alla libertà della Chiesa tutta (clero e credenti) di difendere il Magistero ecclesiastico come aveva fatto il candidato ecuadoregno, definendo l’omosessualità come “serio disturbo della personalità”, e aggiungendo che “l’omosessualità, essendo un peccato, è una disgrazia per l’uomo perché ne perverte la corretta sessualità”. Sosteneva, in sintesi, quel commentatore che qualunque cattolico che, per ossequio al precetto di obbedienza agli insegnamenti della Chiesa, avrebbe ricevuto l’identica, inaccettabile, sanzione, posto che identica è la posizione espressa da svariati documenti ecclesiastici.

Sullo sfondo della critica incombeva il quadro a tinte fosche dei reati di opinione, che esponevano a sanzione chiunque manifestasse un pensiero politico contrario agli orientamenti imposti dalle dittature totalitarie dell’inizio del novecento.

Mi sono sorpresa così a immaginare la reazione di chi ascoltasse quel commento, professandosi credente, e non conoscendo molto dei reati di opinione, credo che plausibilmente si sarebbe sentito minato nel proprio diritto – parimenti fondamentale – di manifestare liberamente il proprio pensiero e il proprio credo religioso.

Il rapporto tra due diritti fondamentali non può – al contrario – essere risolto in termini di soccombenza dell’uno all’altro, pena la negazione del loro rango costituzionale e internazionale, ma si pone come bilanciamento della tutela di entrambi.

In altre parole, è legittimo manifestare il proprio pensiero riguardo ad un fatto o una persona, purché lo si faccia entro i limiti del civile rispetto della dignità dell’altro, e non dovrebbe nemmeno servire un precetto normativo ad imporre questo che mi pare essere davvero il minimo da tutelare in una società che si vuole definire civile. Lascereste che vostro figlio chiami “brutto pazzo pervertito” una persona omosessuale, o lo rimproverereste?

Il repertorio degli insulti è ampio, e anche la nostra Cassazione Penale ha riconosciuto il reato di ingiuria e/o diffamazione a carico di chi ha pronunciato termini dispregiativi non difficili da immaginare, e che non voglio assolutamente ripetere.

Non è il caso di scomodare le obiezioni, scientificamente fondate e anche strumentalmente dimostrate, circa l’assoluta “normalità”, in alcune persone, della risposta fisiologica e ormonale a stimoli sessuali corrispondenti al proprio sesso. Questo dovrebbe essere, semmai, il contenuto di un contraddittorio – civile e democratico, auspicabile per formare non solo un consenso elettorale consapevole, ma soprattutto una coscienza civile adulta – rispetto a chi esprimesse, con termini rispettosi della dignità delle persone, le proprie ragioni di tutela della coppia eterosessuale e l’opposizione al matrimonio e alle adozioni delle coppie gay, recentemente ammessi dal legislatore francese, e con questo metodo si è mossa la giurisprudenza della nostra Corte Costituzionale erosiva della disciplina penalistica di tutela della sola religione cattolica e del suo culto, come religione dello Stato, insieme al legislatore che con legge n. 85 del 24 febbraio 2006 ha riscritto i reati contro la personalità dello Stato, che erano appunto i reati di opinione inseriti nel codice penale Rocco, di impronta fascista.

Credo, invece, che qui si debba piuttosto ricordare a questi commentatori come a nessuno sia consentito, proprio dalla legge divina che loro come me professano, di offendere la dignità dell’Uomo, quel valore che ne fa l’immagine di Dio. Quale, tra i due peccati, sia la trave e quale la pagliuzza nell’occhio, solo Dio può saperlo.

 

Stefania Stefanelli

 

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